Articolo della nostra Dirigente su Mentelocale

di Giusy Randazzo

Genova -Siamo all’epoca del Covid. Ancora. Per poco? Siamo sospesi, pronti al respiro di sollievo, in attesa del vaccino. Lo scorso febbraio non sapevamo ancora quale lungo anno ci aspettasse. Non sapevamo che avremmo cambiato una buona gamma della gestualità sociale: non più strette di mano, non più abbracci affettuosi, non più pacche sulle spalle, non più carezze amichevoli. Non sapevamo che non avremmo più potuto interpretare il volto del passante o del nostro amico o del nostro conoscente perché la mascherina nasconde i lineamenti. Non sapevamo che la quotidianità ordinaria sarebbe divenuta straordinaria: non più aperitivi tra amici, non più pranzi e cene con la famiglia allargata, non più folle nei negozi, non più allegria festosa nei piccoli bar. E poi abbiamo imparato che esiste il lavoro agile e che si può anche far lezione a distanza. In attesa del vaccino siamo cambiati. In meglio? Come si può cambiare in meglio quando il mondo subisce il peggio?

Il vaccino della solidarietà, della comprensione, dell’umanità scarseggia. Anche di quello siamo in attesa. Anche quello dovremmo somministrare in massa, ma in questo caso non bisognerebbe partire dal personale sanitario. Loro sono stati modelli di civismo. Ci hanno insegnato il sacrificio, l’abnegazione, la dedizione e che cosa veramente sia la cura. Il vaccino dell’umanità dovrebbe poter essere somministrato a tutti – senza alcun obbligo, sia chiaro – perché è pure privo di controindicazioni. Ha effetti collaterali? Sì, si diventa contagiosi subito. Si contagia la solidarietà. Chi compie una buona azione crea un effetto a catena di cui forse non è consapevole e, se anche l’RT non è alto, il risultato è sorprendente. Anche questo un Butterfly Effect, ma per fortuna altamente virtuoso.

Oggi vi voglio raccontare di una buona azione. C’è una docente, S. C., che insieme con il marito e con i loro due figli hanno comprato una piccola casa. Insieme, cazzuola e pennello alla mano, l’hanno ristrutturata. A quale scopo? Per concederla in comodato d’uso alla Comunità di Sant’Egidio che poi la userà per ospitare una famiglia di profughi.

La Prof ha una sua storia di volontariato. È stata a Lesbo, nei campi profughi, sempre attraverso la Comunità di Sant’Egidio. «Non si può più assistere a queste morti senza far nulla», sostiene. Mi spiega del progetto dei corridoi umanitari. Un protocollo d'intesa tra la Comunità di Sant'Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese, la Cei-Caritas e il Governo italiano ha permesso l’attivazione del progetto per tentare di evitare le morti nel Mediterraneo o la violenza dei trafficanti di uomini che sfruttano la fuga dalla guerra.

Senza i volontari però non si va da nessuna parte. Sono loro che vengono inviati dalle associazioni nei luoghi in cui sono presenti gli hotspot con i migranti. Loro che scrivono le storie di ognuna di queste famiglie per capire quali siano le più esposte ai pericoli. Attraverso queste storie vengono predisposte delle liste che arrivano al Consolato italiano. Dopo il controllo da parte del Ministero dell'Interno, vengono rilasciati i visti umanitari. Così queste famiglie arrivano in Italia legalmente, in sicurezza, e possono presentare domanda d’asilo politico. I corridoi umanitari sono totalmente autofinanziati. Si cercano sempre degli sponsor sia per pagare il viaggio che consentirà a queste famiglie di arrivare nei paesi accoglienti sia per pagare l’affitto della casa in cui andranno ad abitare. Il progetto Corridoi umanitari dura un anno, durante il quale la famiglia diventa autonoma.

La Prof, il marito e i loro due figli hanno pensato a tutto: hanno comprato la casa e il mobilio – per ospitare dalle 2 alle 6 persone – e l’hanno ristrutturata. Sarà la comunità di Sant’Egidio a individuare la famiglia da ospitare. Sono ricchi? Assolutamente no. Il calo del mercato immobiliare ha permesso loro l’acquisto dell’immobile con un piccolo mutuo. La casa resterà ai loro figli, ma al momento è in comodato d’uso con questa finalità. Insomma, nessun affitto verrà erogato.

Perché l’avete fatto, Prof?, le chiedo. «La mia esperienza a Lesbo mi ha segnata. Ho visto la povertà, la disperazione, ma anche la luce della speranza negli occhi di molti. Non c’è soluzione a questo dramma mondiale e non è possibile dimenticare i paesi in guerra. I corridoi umanitari sono l’unica alternativa alla morte, all’abbandono, alla dimenticanza, al rischio. Nel mio piccolo ho ritenuto che avrei dovuto assumermi un impegno con la mia coscienza, perché questa è una tragedia senza limiti e soprattutto senza confini, perché con poco si può dare un futuro e un’opportunità. Se questa decisione e questa piccola impresa non fossero avvenute in tempo di Covid, sarebbe stato bello coinvolgere amici e colleghi per la ristrutturazione. Purtroppo non è stato possibile, ma sono certa che sarebbero stati in molti a collaborare. Mi piacerebbe se venisse ad abitare qui qualcuno che io ho segnalato quest’estate a Lesbo, ma se così non fosse, non importa. Io so che in tutte le persone che ho conosciuto su quell’isola c’è un’enorme voglia di ricominciare e di non attardarsi guardando alla tragedia vissuta ma di andare avanti. Questa, che io e la mia famiglia stiamo vivendo, è un’esperienza che dà tantissimo, pur se all’apparenza sembra che siamo noi a dare. Dà in termini di pienezza interiore. Ci si sente più umani, pur essendo già umani».

Umani si è per natura, ma – si sa – non tutti gli umani sono umani. Non lo sono quando pensano che l’umanità abbia dei confini. Il SARS-CoV-2 ha dimostrato che non è così. L’umanità è l’intera popolazione mondiale e per lo stesso principio l’umanità è quel sentimento di solidarietà rivolto all’intera specie umana. A tutti gli abitanti del pianeta. Sarebbe una gran cosa diventare veramente umani. Non è necessario acquistare una casa e darla in comodato d’uso. Basta poco. Basta pochissimo. Basta guardarsi intorno e dentro, basta anche soltanto evitare di pensare, quando si leggerà questa storia, che forse bisognerebbe cominciare dagli italiani. Forse bisognerebbe cominciare invece in un altro modo: prima tutti.